Lamentarsi, per alcune persone e specialmente in Italia, è alla stregua di uno sport nazionale: solo noi infatti abbiamo il famoso mugugno genovese, quell’atteggiamento un pò alla Brontolo che ha avuto riconoscimento geografico, almeno nel luogo comune.

COSA VUOL DIRE LAMENTARSI?
Da dizionario, lamentarsi significa: “esprimere la propria scontentezza, dolersi presso altri di cosa che non ci soddisfa, di un torto subìto, di quanto ci fa soffrire: lamentarsi della cattiva sorte; si lamenta di crampi allo stomaco; lamentarsi di essere stato isolato; non mi lamento, non posso lamentarmi, per dire che non si è scontenti”. Inoltre “spesso è inclusa l’idea di un certo risentimento: lamentarsi del cattivo trattamento, del pessimo vitto, della poca pulizia di un locale, della disorganizzazione degli uffici; lamentarsi di lavorare troppo; lamentarsi presso i superiori, ecc”.
Lamentarsi, che di per sè è un comportamento normale e anche sano, è però anche un modo, passivo e poco fruttuoso, di esprimere aggressività. Se sul momento siamo sollevati di scaricarci questo peso, raccontando a qualcun altro ciò di cui ci sentiamo vittima, sul lungo periodo invece lamentarsi non porta a nulla, anzi, se lamentarci ci può piacere e far provare sollievo, ditemi invece, quanto vi piace essere l’orecchio che riceve le lamentele?

“Lamentarsi è inutile, una perdita di tempo. Penso proprio che non lo farò mai.”
Stephen Hawking
La frase di Stephen Hawking (1942-2018), brillante e famoso cosmologo, fisico teorico, matematico, astrofisico, accademico e divulgatore scientifico britannico, ma sfortunatamente molto malato, è rivelatrice di un elemento banale, ma fondamentale: chi più avrebbe solidi motivi per lamentarsi, spesso non lo fa, perchè non è il tipo o la gravità del problema a causare la lamentela, ma il personale modo di affrontare la situazione critica.
Lamentarsi significa porsi nella posizione della vittima, e questo atteggiamento può anche essere un modo, magari poco consapevole, per manipolare gli altri, attirando su di sè compassione, approvazione e comprensione, se non addirittura chiedendo implicitamente (o esplicitamente) all’altro di farsi carico di pesi o incombenze; per cui a lungo andare lamentarsi eccessivamente può provocare negli altri un forte senso di fastidio e irritazione.
Quale potrebbe essere l’identikit del tipico Brontolo?
Ad esempio una tedenza ad attribuire le cause degli eventi fuori dal proprio controllo (detto anche locus of control esterno in psicologia sociale), mancanza di empatia e/o un certo egocentrismo (per cui diventa difficile riuscire a relativizzare gli eventi), in generale un atteggiamento negativo o pessimista nei confronti della vita e una tendenza maggiore ad essere critici e giudicanti. La mancanza di empatia, ovvero una scarsa capacità di mettersi nei panni dell’altro, è a mio parere l’ elemento che più rischia di far emergere nell’interlocutore quei sentimenti di fastidio: chi ha l’abitudine di lamentarsi, è talmente preso da questa attività da dimenticarsi che anche chi ha di fronte è un essere umano, con turni di parola, cose da dire, che a sua volta può avere dei problemi, oppure a cui può far piacere condividere le cose belle della vita.

Il “lamentoso” di fatto mostra poco rispetto e poca comprensione verso l’altro, pensa solo a sè stesso e a scaricarsi dei suoi pesi. Ma soprattutto, il vero Brontolo difficilmente sa di esserlo!
Lamentarsi può davvero diventare un’abitudine e quindi uno schema di comportamento frequente e quasi automatico cui ricorrere, che invece di creare azione e cambiamento, dà vita a un clima di immobilità, risentimento, vittimismo. Un modo per uscire da questa palude è riconoscere la rabbia sottostante la lamentela e chiedersi: cosa posso fare attivamente per cambiare?
Opposti alla lamentela ci sono la resilienza e l’atteggiamento proattivo; occorre cambiare radicalmente punto di vista, smettere di guardare “fuori” e ricordarsi che il cambiamento parte da “dentro”.
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